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Di seguito riportiamo alcune sentenze, relative ai compiti delle agenzie investigative:
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 18 maggio - 8 giugno 2011, n. 12489
(Presidente Relatore De Renzis)
Svolgimento del processo
Con ricorso, ritualmente depositato, (...) conveniva in giudizio la (...) S.p.A., di cui era stato dipendente come addetto alla casa, per sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 14.05.2001 in relazione ad alcune irregolarità di cassa, con le conseguenti statuizioni di carattere restitutorio e retributivo.
La convenuta costituendosi contestava le avverse deduzioni e chiedeva il rigetto del ricorso.
All'esito dell'istruzione, escussi i testi ammessi, il Tribunale di Roma con sentenza n. 17734 del 14.10.2004 rigettava il ricorso.
Tale decisione, appellata dal (...) è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma con sentenza n. 4297 del 2009.
La Corte ha ritenuto corretta l'utilizzazione dei controlli investigativi in sede giudiziale; in ogni caso ha ribadito la responsabilità dell'appellante con riguardo agli addebiti di mancata registrazione di alcune vendite sulla base delle dichiarazioni dei dipendenti dell'agenzia investigativa sentiti come testi in primo grado.
Contro la sentenza di appello il (...) propone ricorso per cassazione con quattro motivi.
La società resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 C.P.C.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, sostenendo che il giudice di appello ha errato nel ritenere ammissibile l'utilizzo di una agenzia investigativa da parte del datore di lavoro per verificare e, successivamente, per provare in giudizio l'inosservanza delle procedure di cassa e la mancata registrazione fiscale delle relative operazioni.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha fatto richiamo al costante orientamento di questa Corte, che si condivide, secondo cui le disposizioni dell'art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. n. 3590 del 14 febbraio 2011; Cass. n. 18821 del 9 luglio 2008; Cass. n. 9167 del 7 giugno 2003 ed altre conformi).
Orbene il giudice di appello, proprio in relazione a tale orientamento, ha precisato che nella fattispecie in esame il controllo dell'agenzia si era mantenuto nei limiti anzidetti, non investendo la normale attività lavorativa, ma le prestazioni del dipendente integranti violazioni di obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo al profilo della omessa valutazione delle prove ed in particolare delle dichiarazioni rese dai testi U. e S., perché la loro presenza sul luogo di lavoro del (...) era strumentale proprio per precostituire una prova del comportamento diligente nell’esercizio dell’attività lavorativa (sul potere del giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento e di scegliere, tra le risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, si richiama l’indirizzo costante di questa Corte: ex plurimis Cass. Sentenza n. 9834 del 1995; Cass. Sentenza n. 10896 del 1998; Cass. N. 17477 del 2007).
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 e vizio di motivazione, osservando che il giudice di appello non ha tenuto nella debita considerazione il fatto che dagli elementi di prova (in particolare si richiamano le dichiarazioni dei testi addotti dall’azienda - direttore generale (...) e dipendenti della (...) non si rinviene alcun tratto, se non meramente deduttivo, in cui venga riferito dell’appropriazione da parte del dipendente di somme di denaro frutto delle operazioni per cui è causa.
Il motivo è inammissibile ex art. 386 bis C.P.C., in quanto il relativo quesito (come formulato a pag. 43 del ricorso) non è conferente al caso di specie, giacchè fa riferimento all’ipotesi di appropriazione indebita, che non ha costituito oggetto di contestazione disciplinare.
Il motivo è comunque infondato, in quanto il ricorrente si limita a contrapporre alla valutazione della sentenza impugnata, sorretta da congrua logica motivazione, un diverso apprezzamento degli elementi di prova testimoniali, non consentito in sede di legittimità.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo al profilo dell’ammissibilità ad essere escussi come testi i dipendenti della agenzia investigativa.
Il motivo in questione è connesso al primo e per la sua infondatezza si fa riferimento alle argomentazioni sviluppate in precedenza, ribadendosi che il controllo per mezzo di agenzia investigativa è lecito, qualora, come nel caso di specie, il controllo non investa l'inadempimento dell'obbligazione, ma i comportamenti dei dipendente, aventi autonoma rilevanza rispetto al contenuto dell'obbligazione del lavoratore ed integranti violazioni di tipo fiscale ed anche penale.
Corretta è pertanto l'affermazione del giudice di appello circa l'ammissibilità ed attendibilità dei dipendenti dell'agenzia investigativa ad essere sentiti come testi, non avendo gli stessi alcun interesse diretto alla controversia.
5. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
Le spese dei giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in € 49,00, oltre € 2000/00 per onorari ed oltre IVA, CPA e spese generali.
Agenzia Investigativa: RICORSO DEL DATORE DI LAVORO
Corte di Cassazione sentenza n. 3590 14 febbraio 2011
Con ricorso al giudice del lavoro di Roma, alcuni dipendenti di una società gerente del servizio di ristorazione e di rivendita tabacchi nell'Aeroporto di Roma Fiumicino, impugnavano il licenziamento per giusta causa loro irrogato da detto datore, che li accusava di non aver rilasciato in più occasioni lo scontrino di cassa alla clientela.
In particolare, la società datrice di lavoro aveva licenziato ciascun dipendente dopo aver verificato la violazione delle “procedure di cassa e dei doveri fondamentali, al fine di trarne utilità personale, in danno degli interessi della società”. Il Giudice di primo grado rigettava le domande dei lavoratori che, successivamente adivano la Corte d'appello di Roma, che confermava la sentenza di primo grado.
La Corte d’Appello ha in particolare evidenziato, come gli addebiti ascritti ai lavoratori erano stati rilevati da personale ispettivo dipendente da un'agenzia investigativa appositamente incaricata dal datore di lavoro e che detto personale in istruttoria aveva confermato il contenuto degli accertamenti effettuati. La stessa Corte descriveva le modalità operative adottate da costoro (consistenti nel presentarsi agli operatori per procedere al pagamento della merce acquistata e nel redigere e sottoscrivere immediatamente un rapporto circa le irregolarità riscontrate, ripetendo l'operazione più volte nel caso di accertate mancanze) ed escludeva che le indagini fossero preordinate a colpire singoli dipendenti, dato che i controlli erano stati eseguiti su tutto il personale.
Tali accertamenti erano effettuati nel rispetto degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori, i quali non precludono al datore di lavoro di ricorrere o ad un'agenzia investigativa terza o a proprio personale dipendente per accertare eventuali mancanze dei dipendenti e tutelare i propri interessi. Nella specie gli accertamenti erano stati diretti all'accertamento di atti illeciti del personale e non di meri inadempimenti contrattuali, atteso che le violazioni riscontrate davano luogo a veri e propri illeciti penali e fiscali.
I dipendenti ricorrevano, pertanto, per Cassazione censurando, tra i vari motivi, carenza di motivazione della sentenza in merito alla legittimità dei controlli a mezzo di agenzia investigativa, violazione degli articoli 2 e 3 Stat. Lav. , atteso che ai medesimi era stato ascritto non un atto illecito, ma l’esecuzione in maniera non corretta delle operazioni di cassa, in violazione dell’apposito regolamento aziendale.
La giurisprudenza di legittimità ha rigettato il ricorso in quanto, atteso che le norme degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori delimitano la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, ma non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all'art. 4 dello stesso statuto, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito basandosi sul fatto che l’accertamento del personale ispettivo aveva ad oggetto comportamenti illeciti dei dipendenti non casuali, ma ripetitivi e distribuiti in un breve arco temporale ed evidenziando il grave pregiudizio a cui era esposto il datore di lavoro per le gravi conseguenze fiscali che sarebbero potute scaturire dal loro comportamento.
Agenzia Investigativa ed uso di apparecchiature investigative:
DECRETO MINISTERO DELL’ INTERNO n° 269 dell’ 1.12.2010
MINISTERO DELL’INTERNO - DECRETO 1 dicembre 2010, n. 269
Art. 5
Qualita’ dei servizi di investigazione privata e di informazione commerciale
1. Ai fini della definizione delle tipologie di attivita’, di cui all’articolo 4, comma 2, e dei requisiti minimi di qualita’ dei servizi, sono individuate le seguenti tipologie di attivita’ d’indagine, esercitata nel rispetto della legislazione vigente e senza porre in essere azioni che comportino l’esercizio di pubblici poteri, riservate agli organi di Polizia ed alla magistratura inquirente:
a) investigazione privata:
a.I): attivita’ di indagine in ambito privato, volta alla ricerca ed alla individuazione di informazioni richieste dal privato cittadino, anche per la tutela di un diritto in sede giudiziaria, che possono riguardare, tra l’altro, gli ambiti familiare, matrimoniale, patrimoniale, ricerca di persone scomparse;
a.II): attivita’ di indagine in ambito aziendale, richiesta dal titolare d’azienda ovvero dal legale rappresentante o da procuratori speciali a cio’ delegati o da enti giuridici pubblici e privati volta
a risolvere questioni afferenti la propria attivita’ aziendale, richiesta anche per la tutela di un diritto in sede giudiziaria, che possono riguardare, tra l’altro: azioni illecite da parte del prestatore di lavoro, infedelta’ professionale, tutela del patrimonio scientifico e tecnologico, tutela di marchi e brevetti, concorrenza sleale, contraffazione di prodotti;
a.III): attivita’ d’indagine in ambito commerciale, richiesta dal titolare dell’esercizio commerciale ovvero dal legale rappresentante o da procuratori speciali a cio’ delegati volta all’individuazione ed all’accertamento delle cause che determinano, anche a livello contabile, gli ammanchi e le differenze inventariali nel settore commerciale, anche mediante la raccolta di informazioni reperite direttamente presso i locali del committente;
a.IV): attivita’ di indagine in ambito assicurativo, richiesta dagli aventi diritto, privati e/o societa’ di assicurazioni, anche per la tutela di un diritto in sede giudiziaria, in materia di: dinamica dei sinistri, responsabilita’ professionale, risarcimenti sul lavoro, contrasto dei tentativi di frode in danno delle societa’ di assicurazioni;
a.V): attivita’ d’indagine difensiva, volta all’individuazione di elementi probatori da far valere nell’ambito del processo penale, ai sensi dell’articolo 222 delle norme di coordinamento del codice di
procedura penale e dall’articolo 327-bis del medesimo Codice;
a.VI): attivita’ previste da leggi speciali o decreti ministeriali, caratterizzate dalla presenza stabile di personale dipendente presso i locali del committente.
Per lo svolgimento delle attivita’ di cui ai punti da a.I), a.II), a.III) e a.IV) i soggetti autorizzati possono, tra l’altro, svolgere, anche a mezzo di propri collaboratori segnalati ai sensi dell’articolo 259 del Regolamento d’esecuzione TULPS: attivita’ di osservazione statica e dinamica (c.d. pedinamento) anche a mezzo di strumenti elettronici, ripresa video/fotografica, sopralluogo, raccolta di informazioni estratte da documenti di libero accesso anche in pubblici registri, interviste a persone anche a mezzo di conversazioni telefoniche, raccolta di informazioni reperite direttamente presso i locali del committente.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE V PENALE
Sentenza 6 marzo – 9 luglio 2009, n. 28251
(Presidente Calabrese – Relatore Marasca)
La Corte di Cassazione osserva:
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Potenza aveva chiesto la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di P. A., vicequestore, e D. G., imprenditore Wind, per violazione degli articoli 615 bis o 617 bis c.p., nonché per la violazione degli articoli 314 e 323 c.p. per il solo P..
I due si sarebbero procurati indebitamente notizie attinenti la vita privata di M. E. T., con la quale il P. aveva avuto una relazione sentimentale, poi interrottasi per volontà di lei, installando nell’auto della donna nel vano della luce di cortesia un telefono cellulare, con suoneria disattivata, su cui era impostata la funzione di risposta automatica in modo da consentire la ripresa sonora di quanto avveniva nell’auto.
Il GIP presso il Tribunale di Potenza escludeva che fosse ravvisabile il delitto di cui all’articolo 615 bis o 617 bis c.p., riteneva insufficienti gli indizi in relazione all’articolo 314 c.p., mentre in relazione all’abuso in atti di ufficio disponeva la sospensione dall’ufficio del vicequestore P..
Gli appelli delle parti venivano rigettati dal Tribunale della libertà di Potenza con ordinanza del 19 dicembre 2008. Con il ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Potenza deduceva, con riferimento agli articoli 615 e 617 bis c.p., la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale di cui alla lettera b) dell’articolo 606 c.p.p. e la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ex articolo 606 lettera e) c.p.p..
Le questioni sottoposte al vaglio della Suprema Corte possono così sintetizzarsi:
a) se l’automobile, con riferimento al reato di cui all’articolo 615 bis c.p. possa o meno considerarsi un luogo di privata dimora ai sensi dell’articolo 614 c.p., norma espressamente richiamata dall’articolo 615 bis c.p.;
b) se il divieto di cui all’articolo 617 bis c.p. concerna o meno gli strumenti di comunicazione;
c) se la espressione “altre forme di trasmissione a distanza di suoni”, di cui all’articolo 623 bis c.p., sia riferita all’oggetto della intercettazione o allo strumento di captazione.
I motivi di ricorso non sono fondati.
Le norme in discussione – 615 bis c.p. e 617 bis c.p. – tutelano la riservatezza, o meglio la libertà morale delle persone, individuabile in rapporto all’ambiente e agli strumenti di comunicazione.
La disposizione dell’articolo 615 bis c.p. tutela la riservatezza di notizie ed immagini e fa riferimento ai soli luoghi indicati nell’articolo 614 c.p., e cioè l’abitazione e la privata dimora.
Orbene l’autovettura che si trovi sulla pubblica via non è ritenuta, dalla giurisprudenza della Suprema Corte formatasi essenzialmente in materia di intercettazioni tra presenti, luogo di privata dimora (vedi da ultimo n. 4125/07 – 235601, n. 13/05 – 230533 e Cass., Sez. V penale, 30 gennaio – 18 marzo 2008, n. 12042).
Tale indirizzo trova conferma nella pronuncia delle Sezioni Unite Penali n. 26795 del 2006, che, con affermazione che, sebbene resa nel contesto della interpretazione della normativa processuale in tema di videoriprese, appare di carattere generale, ha osservato che non c’è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona ed un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona ed il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente.
Nemmeno gli articoli 617 bis e 623 bis c.p. risultano violati nel caso di specie. Tali disposizioni concernono, infatti, gli strumenti di comunicazione nel senso che l’articolo 617 bis ha ad oggetto le attività volte ad intercettare o impedire comunicazioni e conversazioni che avvengono con il mezzo del telefono o del telegrafo o, a seguito dell’ampliamento della fattispecie derivante dalla applicazione della norma di chiusura contenuta nell’articolo 623 bis c.p., con altre forme di trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati e non possono con certezza riguardare anche le intercettazioni o gli impedimenti di conversazioni tra presenti (vedi oltre la citata Cass. 30 gennaio 2008 n. 12042, anche la n. 4264 del 2006). Insomma i reati in questione sono ravvisabili quando un terzo si inserisca, con l’uso di apposite apparecchiature, in un canale di trasmissione di dati, cosa che non è avvenuta nel caso di specie.
Le pur interessanti osservazioni del Pubblico Ministero ricorrente non consentono di superare gli indirizzi giurisprudenziali indicati.
Non ricorrono i presupposti indicati dall’articolo 618 c.p.p. per devolvere le questioni di diritto prospettate alle Sezioni Unite Penali, come richiesto dal Pubblico Ministero di udienza.
Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Cassazione – Sezione Quinta Penale.
Sentenza 2 maggio 2002 - 16130/2002
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE III PENALE
Sentenza 24 marzo – 13 maggio 2011, n. 18908
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ordinanza 13.07.2010 il Tribunale di Tempio Pausania rigettava l’istanza di riesame proposta da M.M. avverso il decreto di convalida del sequestro di una penna in cui erano incorporati un microfono e una telecamera perchè sicuramente utilizzata per registrare due conversazioni tra presenti avvenute, la prima, col maresciallo C. all’interno degli uffici della Guardia di Finanza di (OMISSIS) e, la seconda, col maggiore A. nel bar adiacente agli uffici.
Il sequestro veniva convalidato per le opportune indagini in relazione all’ipotesi criminosa di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167.
Il Tribunale riteneva che la registrazione audiovisiva da parte del M. delle suddette conversazioni, all’insaputa degli interlocutori, integrasse la fattispecie di trattamento di dati personali senza autorizzazione poichè l’attività d’investigatore privato svolta dall’indagato portava a ritenere che i dati indebitamente acquisiti fossero destinati alla diffusione a terzi. Sussistevano le esigenze probatorie essendo necessario accertare l’eventuale destinazione a terzi dei dati raccolti e verificare se detta diffusione fosse finalizzata a procurare profitto al M. con danno per i titolari dei dati personali acquisiti.
Avverso l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato denunciando violazione di legge sulla sussistenza del fumus dovendosi considerare che la registrazione si era svolta tra presenti; che la stessa era stata effettuata per fini esclusivamente personali senza alcuna possibilità di ipotizzare l’eventuale diffusione e che non vi era alcun elemento denotante che, dal fatto, potesse derivare un profitto per l’agente o un danno per il soggetto passivo.
Chiedeva l’annullamento dell’ordinanza.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato con le conseguenze di legge.
L’art. 167 (Trattamento illecito di dati) del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, al comma 1, dispone che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, alfine di trarne per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi”, mentre al secondo comma dispone che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, alfine di trarne per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
Nel caso in esame, poichè non si tratta di dati sensibili o giudiziali, ovvero di dati idonei a rivelare lo stato di salute, non è prospettabile alcuna violazione al disposto dell’art. 18 (che riguarda i trattamenti effettuati da soggetti pubblici), o dell’art. 19 (che riguarda il trattamento e la comunicazione da parte di soggetti pubblici di dati diversi da quelli sensibili e giudiziali), o agli artt. 123, 126 e 130 (che riguardano i dati relativi al traffico o all’ubicazione ovvero le comunicazioni indesiderate nell’ambito delle comunicazioni elettroniche), o dell’art. 129 (che riguarda la formazione degli elenchi di abbonati), o dell’art. 17 (che riguarda il trattamento di dati che presentano rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali e per la dignità dell’interessato), o dell’art. 20 (che riguarda il trattamento di dati sensibili), o dell’art. 21 (che riguarda il trattamento di dati giudiziali), o dell’art. 22 (che riguarda i dati idonei a rivelare lo stato di salute), o degli artt. 26 e 27 (che riguardano rispettivamente i dati sensibili e i dati giudiziali) o dell’art. 45 (che riguarda il trasferimento di dati fuori dal territorio dello Stato) o dell’art. 25, comma 1, il quale dispone che “la comunicazione e la diffusione sono vietate, oltre che in caso di divieto disposto dal Garante o dall’autorità giudiziaria: a) in riferimento a dati personali dei quali è stata ordinata la cancellazione, ovvero quando è decorso il periodo di tempo indicato nell’art. 11, comma 1, lett. e); b) per finalità diverse da quelle indicate nella notificazione del trattamento, ove prescritta”.
Ricordato che il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4, comma 1, lett. a), prevede che per trattamento s’intende “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”, sarebbe, quindi, in astratto ipotizzabile la sola violazione dell’art. 23, comma 1, il quale dispone che “Il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato”.
L’art. 23, pertanto, si riferisce non solo al trattamento dei dati, ma anche alla loro comunicazione e diffusione, vietando anche le stesse senza consenso dell’interessato.
La suddetta disposizione e il divieto in essa previsto vanno, però, interpretati e integrati tenendo conto anche della disposizione di cui all’art. 5, che fissa l’oggetto e l’ambito di applicazione della disciplina dettata dal testo unico. L’art. 5, comma 3, infatti, prevede che il trattamento (e quindi la comunicazione) di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all’applicazione delle disposizioni di cui al TU, solo se i dati sono destinati a una comunicazione sistematica o alla diffusione.
Pertanto, quando si tratta di persona fisica che effettua il trattamento per fini esclusivamente personali, il soggetto è tenuto a rispettare le disposizioni del TU, ivi comprese quelle in tema di obbligo di consenso espresso dell’interessato per il trattamento, solo quando i dati raccolti e trattati sono destinati alla comunicazione sistematica e alla diffusione. In altri termini, non è illecito registrare una conversazione perchè chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui.
Tanto premesso, va rammentato che, “poichè il sequestro probatorio non è una misura cautelare, ma un mezzo di ricerca della prova, esso presuppone non l’accertamento dell’esistenza di un reato, ma la semplice indicazione degli estremi di un reato astrattamente configurabile.
La motivazione del relativo decreto, pertanto, più che all’esistenza e alla configurabilità del reato (il cui accertamento è riservato alla fase di merito), deve avere principalmente riferimento alla natura e alla destinazione delle cose da sequestrare, le quali devono essere qualificabili come “corpo del reato” o cose pertinenti al reato” Cassazione sez. 5, n. 703, 8.02.1999, Circi, RV 212778.
Quindi, perchè il sequestro a fini probatori di cose pertinenti a fatti di reato (art. 253 c.p.p.) sia legittimo, non è necessario che il fatto sia accertato, ma è sufficiente che sia ragionevolmente presumibile o probabile attraverso elementi logici. In tema di sequestro probatorio, al tribunale in sede di riesame compete il potere-dovere di espletare il controllo di legalità, sicchè l’accertamento del fomus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentano di sussumere l’ipotesi considerata in quella tipica. Alla luce dei sopraindicati principi, il sequestro probatorio è stato legittimamente disposto.
Nel caso in esame, in cui gli interlocutori del M. hanno appreso lo strumento di captazione nell’immediatezza del fatto e hanno avuto contezza di quanto registrato, può configurarsi la violazione del dettato del citato art. 23 sotto il profilo del tentativo di reato.
Sia il primo sia l’art. 167 cit., comma 2 dispongono – diversamente da quanto prevedeva la L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35 – che i reati ivi previsti sono punibili soltanto “se dal fatto deriva nocumento” e, nella specie, tale nocumento potrebbe desumersi dallo sviluppo delle indagini donde l’astratta ipotizzabilità del tentato reato di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167. In conclusione, il Tribunale del riesame ha legittimamente confermato il decreto di sequestro, correttamente motivato sia nell’indicazione delle finalità probatorie sia nella dimostrazione dell’esistenza del rapporto diretto o pertinenziale tra le cose in sequestro e il reato sopraindicato sulla base di fatti specifici.
Il rigetto del ricorso comporta l’onere delle spese del procedimento.
Cassazione penale sezione V
Giurisprudenza sulla attività investigativa:
Corte di Cassazione – Sentenza n. 13789 del 2011 Addetto alla cassa omette la registrazione di merce venduta
Con ricorso, ritualmente depositato, (…) conveniva in giudizio la (…) S.p.A., di cui era stato dipendente come addetto alla cassa, per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 12.1.2000 in relazione ad alcune irregolarità di cassa, con le conseguenti statuizioni di carattere restitutorio e retributivo.
La convenuta costituendosi contestava le avverse deduzioni e chiedeva il rigetto del ricorso.
All’esito dell’istruzione, escussi i testi ammessi, il Tribunale di Roma con sentenza n. 20575 del 19.11.2004 rigettava il ricorso.
Tale decisione, appellata dallo (…), è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma con sentenza n. 4921 del 2006.
La Corte ha ritenuto corretta l’utilizzazione dei controlli investigativi in sede giudiziale; in ogni caso ha ribadito la responsabilità dell’appellante con riguardo agli addebiti di mancata registrazione di alcune vendite sulla base delle dichiarazioni dei dipendenti dell’agenzia investigativa sentiti come testi in primo grado.
Corte di Cassazione sentenza n. 3590 14 febbraio 2011. ricorso del datore di lavoro ad agenzie investigative Con ricorso al giudice del lavoro di Roma, alcuni dipendenti di una società gerente del servizio di ristorazione e di rivendita tabacchi nell'Aeroporto di Roma Fiumicino, impugnavano il licenziamento per giusta causa loro irrogato da detto datore, che li accusava di non aver rilasciato in più occasioni lo scontrino di cassa alla clientela.
La giurisprudenza di legittimità ha rigettato il ricorso in quanto, atteso che le norme degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori delimitano la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, ma non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino nè il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti, nè il divieto di cui all'art. 4 dello stesso statuto, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza.
Sentenza Corte di Cassazione, 09474/2009
L’espletamento di altra attività lavorativa/extralavorativa durante la malattia può giustificare il licenziamento
L'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato
di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento
dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività
espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa.
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione lavoro, 16196/2009
Il controllo dell’imprenditore può essere svolto da dipendenti di una agenzia investigativa La Corte di Cassazione, non esclude il potere di controllo dell'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c. anche attraverso personale esterno costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa. Il controllo può avvenire anche occultamente senza che vi ostino né il principio di correttezza e
buona fede nell'esecuzione dei rapporti né il divieto di cui all'art. 4 della
stessa legge n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. sez. lav., 12.6.2002 n. 8388; Cass. sez. lav., 5.5.2000 n. 5629; Cass. sez. lav., 17.10.1998 n. 10313)
Dipendenti e compilazione falso rapporto di servizio:
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione II penale, NGR 031048/2008
La falsa compilazione dei rapporti di servizio di funzionari commerciali è motivo per giustificare il licenziamento.
Ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell'azienda in realtà si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, ne' sono ravvisabili profili di illiceità a norma dell'art. 2, secondo comma, della legge n. 300 del 1970. Nella specie un istituto di credito aveva sottoposto a verifica l'operato di un suo funzionario incaricato di attività promozionale esterna, a causa dei sospetti suscitati dagli scarsissimi risultati conseguiti e l'aveva poi licenziato,e essendo emerso che non intratteneva affatto i contatti personali indicati nei rapportini di servzio, pur non compiendo neanche attività a favore di terzi; questa S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata rigettata l'impugnativa del licenziamento (Sez. L, Sentenza n. 1031 3 del 17/10/1998 - Rv. 519819 -).
Inoltre "le disposizioni degli art. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non implicano l'impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ed esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata"
(Sez. L, Sentenza n, 10761 del 03/11/1997 - Rv. 509428 ).
Sentenza Corte di Cassazione 18821/2008
L’attività di controllo occulta da parte di investigatori privati è legittima In tema di controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, in ordine agli illeciti del lavoratore che non riguardino il mero inadempimento della prestazione lavorativa ma incidano sul patrimonio aziendale (nella specie, mancata registrazione della vendita da parte dell'addetto alla cassa di un esercizio commerciale ed appropriazione delle somme incassate), sono legittimi - e non presuppongono necessariamente illeciti già commessi - i controlli occulti posti in essere dai dipendenti dell'agenzia i quali, fingendosi normali clienti dell'esercizio, si limitino a presentare alla cassa la merce acquistata ed a pagare il relativo prezzo, senza porre in essere manovre dirette ad indurre in errore l'operatore; inoltre, a tutela del diritto di difesa dell'incolpato, è necessario che la contestazione sia tempestiva e che l'accertamento non sia limitato ad un unico episodio, non sempre significativo, e sia corroborato dall'accertamento delle giacenze di cassa alla fine della giornata lavorativa del dipendente.
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione 2 Penale, 44912/2008
La falsa attestazione circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo, è condotta fraudolenta idonea ad integrare la truffa
La falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata. Per tale ragione sono leciti i controlli posti in essere nei loro confronti e ciò anche se questi consistono nel pedinamento da parte di un investigatore privato e, nel caso di accertata violazione dei loro doveri, rischiano una condanna per truffa.
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 06832/2005
E’ legittima l’attività di simulazione di acquisto da parte di una agenzia investigativa Costituisce giurisprudenza consolidata di questa Corte che sono legittimi i controlli posti in essere da dipendenti di un'agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l'appropriazione della somma incassata da parte dell'addetto alla cassa (Cass. 23 agosto 1996 n. 7776; Cass. 3 novembre 1997 n. 1076; Cass. 7 giugno 2003 n. 9167).
Sentenza Corte di Appello di Bologna, 5 febbraio 2003
Sono legittimi i controlli esercitati sui dipendenti da parte di un’agenzia investigativa. La Corte d'Appello invocando precedenti della Corte di Cassazione, ha dichiarato legittimi i controlli esercitati da dipendenti di un'agenzia investigativa operanti come normali clienti di un esercizio commerciale (Cass. n. 10761119972 ritenendo possibile per il datore di lavoro esercitare tale controllo anche mediante la propria organizzazione, e quindi pure adibendo a mansioni di vigilanza determinate categorie di prestatori d'opera, anche se privi di licenza prefettizia di guardia giurata (Cass. n. 9576/2001) non coincidendo l'attività di acquisto dei prodotti alla cassa con 1' "eseguire investigazioni o ricerche o raccogliere informazioni per conto dei privati" (Art. 134 TULPS).
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 6236/2001
E’ lecito il controllo del dipendente in malattia.
Le disposizioni del citato articolo 5, sul divieto di accertamenti del datore di lavoro circa la infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore, e in genere degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto - pur non risultante da un accertamento sanitario - atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza, quale in particolare lo svolgimento da parte del lavoratore di un'altra attività lavorativa; analogamente è stata ritenuta la deducibilità dello svolgimento dell'attività lavorativa durante l'assenza per malattia quale illecito disciplinare sotto il profilo dell'eventuale violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare la guarigione o la sua tempestività (Cassazione 3704/87, 5407/90, 5006192, 8165/93, 1974194, 6399/95, 11355/95). E naturalmente insito in tale giurisprudenza il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Garante per la protezione dei dati personali - 23 ottobre 2001
Deroga alla preventiva acquisizione del consenso al trattamento dei dati personali per lo svolgimento dell’attività degli investigatori privati
Le informazioni raccolte da investigatori privati in occasione di una specifica attività d'indagine svolta sul luogo di lavoro e commissionate dal datore di lavoro, in quanto associate od associabili ai singoli lavoratori, possono essere oggetto di istanza d'accesso da parte di ciascun dipendente interessato. Detto trattamento di dati personali, ove svolto dal titolare in ossequio alle disposizioni contenute nella legge n. 300/1970 e per il solo periodo strettamente necessario per far valere, anche in sede giudiziaria, i diritti connessi al rapporto di lavoro, non necessita della preventiva acquisizione del consenso dell'interessato.
Sentenza Corte di Cassazione, 5629/2000
Verifica delle mancanze o di comportamenti illeciti dei dipendenti da parte di investigatori privati La prestazione d’opera a favore di terzi concorrenti costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà, irrilevante sotto il profilo penale, se compiuta fuori dal normale orario di lavoro, mentre integra gli estremi del delitto di truffa se svolta nel normale orario, da parte del soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività certo non gratuita. Non è vietato all’imprenditore di verificare il corretto adempimento delle prestazioni lavorative al fine di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione (Cass., Sez., Lav., 18 febbraio 1997 n. 1455), è consentita la verifica circa l’eventuale realizzazione di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa (Cass., Sez., Lav., 9 giugno 1989 n. 2813), non è vietato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati, in considerazione della libertà della difesa privata e in mancanza di espliciti rilievi al riguardo (Cass., Sez., Lav., 17 ottobre 1998 n. 10313).
Sentenza Corte di Cassazione, 8669/1996
Legittimità del licenziamento del dipendente che in malattia svolge altra attività lavorativa.
Il Tribunale di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato dalla XXX spa a YYY motivato dallo svolgimento di attività lavorativa presso terzi, in costanza di malattia. In particolare il Tribunale, premessa la legittimità del controllo effettuato dal datore di lavoro in quanto non riconducibile a quello sulla effettività della malattia e quindi non soggetto alle garanzia ex art. 5 Statuto dei lavoratori rilevava, nel merito, che dalla deposizione del teste AAA era stato accertato che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, questi aveva svolto per altra impresa di pulizia varie attività sostanzialmente coincidenti con le prestazioni dovute al datore di lavoro; traendone la conseguenza che tale accertamento, in sé era sufficiente per affermare il carattere usurante del lavoro svolto e non dovuto al terzo, quindi pregiudizievole alla guarigione del ricorrente.
Sentenza Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 5407/1990
La simulazione di malattia, inosservanza del divieto di concorrenza, comportamenti che pregiudichino la guarigione costituiscono motivo per il giustificato licenziamento.
Benché non esista un divieto assoluto, per il lavoratore subordinato assente per malattia, di prestare nel frattempo attività lavorativa (anche) in favore di un terzo, tuttavia tale comportamento - per il cui accertamento non si impone l'osservanza delle garanzie prescritte (art. 5, comma 14 della legge n. 638 del 1983) per i controlli sanitari - può assurgere a giustificato motivo di licenziamento, ove se ne possa motivatamente desumere la simulazione della malattia o l'inosservanza del divieto di concorrenza o l'attitudine a pregiudicare o, quanto meno, ritardare la guarigione e, conseguentemente, la ripresa della prestazione lavorativa, con violazione di una obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto.
Fonte internet
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